In un nostro lavoro (Il crepuscolo dei patti parasociali, Cierre Edizioni, 2013), abbiamo sostenuto che il sistema capitalistico relazionale, basato sui sindacati di voto, era al tramonto, per molti motivi, tra cui la possibilità di rendere sociali tali pattuizioni, inserendole nello statuto. Ma anche la crisi finanziaria ha giocato un ruolo importante, in tal senso, come le nuove regole sul capitale di Basilea3 e così la normativa sulle parti collegate.
Ma se è vero che oggi le società di dimensioni medio-grandi stanno disdettando i patti parasociali, è anche vero che il rapporto tra il governo societario e i patti tra soci è ancora problematico.
Chiediamoci, dunque come un patto di sindacato, molto stretto tra soci, finisca per impattare sull’attività del Presidente del C.d.A. sulla sua autonomia e indipendenza. Dobbiamo allora premettere che la validità dei sindacati di voto e dei sindacati di blocco è legata a quelle finalità meritevoli di tutela a cui si riferisce una fondamentale norma del nostro codice civile e cioè l’art. 1322 c.c. (in questo senso parla la norma positiva e così si espresse la Cassazione quando nel 2004 riconobbe per la prima volta nel nostro ordinamento i sindacati di voto).
Peraltro la meritevolezza delle finalità che i patti si propongono di raggiungere è un concetto molto elastico, così come lo è il tradizionale richiamo al rafforzamento dell’interesse societario. Va detto subito, peraltro, che, quando i soci si apprestano a sottoscrivere un patto, non hanno particolarmente a cuore la meritevolezza dei loro propositi, ma si propongono soltanto di coltivare i propri interessi e di avere un ruolo nella gestione della società. Anche perché quei soci (o i loro consulenti) sono ben consapevoli che difficilmente i patti saranno conosciuti dagli altri soci non patiscenti.
L’art. 2341 ter c.c. indica i patti che devono essere comunicati alla società e dichiarati in apertura di ogni assemblea. La dichiarazione deve essere trascritta e depositata presso l’ufficio del registro delle imprese. La finalità perseguita dal legislatore è quella di consentire a tutti gli azionisti di essere informati sugli accordi esistenti tra soci, in modo tale da poter verificare se una parte degli stessi influenzi gli amministratori che ha nominato un socio o un gruppo di soci, con potenziale danno per la società, il cui interesse viene perseguito. O comunque viene posposto a quello del socio o del gruppo di soci.
L’informazione dovrebbe, quindi, comportare una riduzione dei costi, fungendo da impulso alla partecipazione, consapevole ed attiva, dell’intera compagine azionaria all’organizzazione ed alla vita della società e, al contempo, da deterrente a condotte opportunistiche da parte dei manager e dei soci che esercitano un’influenza notevole o dominante.
In tal modo si dovrebbero evitare distorsioni del governo societario, evitare asimmetrie informative e dare efficienza al funzionamento del mercato.
Nel caso di società quotate, la pubblicità dei patti dovrebbe consentire una più trasparente e corretta formazione dei prezzi degli strumenti finanziari, che riflettano non solo i dati contabili a disposizione del mercato, ma anche quelli relativi agli assetti proprietari e di governo societario dell’emittente, in modo da incrementare la fiducia di tutto il pubblico degli investitori, attuali e potenziali.

In concreto, invece, la normativa sulla pubblicità sembra facilmente eludibile, da quegli operatori che hanno un interesse all’opacità sugli accordi intercorsi.
Se la norma impone di pubblicare il patto stipulato tra soci di una società aperta al mercato, basterà semplicemente spostare la catena di controllo della società sottoposta al dovere di pubblicità del patto in un’altra società, non sottoposta a tale dovere (ad es. in un società a responsabilità limitata), ed il gioco è fatto.
Si ricordi poi che il dovere di pubblicità non riguarda i contenuti dell’organizzazione e dell’attività del patto (quali ad esempio le delibere assunte nelle riunioni parasociali). Peraltro anche quando la società, per il controllo della quale sia stato stipulato un patto, veda regolarmente depositato in occasione dell’assemblea per l’approvazione del bilancio un elenco con l’indicazione aggiornata delle generalità di tutti i soci che abbiano formato un patto non ha però l’obbligo di verificare se le notizie trasmesse siano complete e siano vere.
E’ lecito dedurne che la nuova legislazione non abbia portato ad un’informazione reale e completa sui comportamenti e sull’attività dei componenti di un patto parasociale.

Questa breve panoramica, per quanto succinta, dimostra come gli accordi tra i soci possono essere tuttora riservati tra i patiscenti e non comunicati anche all’interno della società e possono determinare asimmetrie informative che hanno per effetto, tra l’altro, delibere assembleari e/o delibere consigliari maggiormente attente agli interessi dei soci patiscenti, rispetto all’interesse dell’intera società.
Come si deve comportare quindi un consigliere di amministrazione legato ad un patto parasociale che debba decidere su una materia delicata, che metta in pericolo l’interesse della società?
E come deve atteggiarsi il Presidente del Consiglio di Amministrazione, che magari sia stato eletto sulla base del medesimo patto parasociale?
Un severo cultore di diritto commerciale, Bruno Visentini, sosteneva che: “Chi accetta di entrare in un consiglio di amministrazione su designazione di un sindacato di voto, non può per lealtà non tener conto del patto di sindacato e delle indicazioni che da esso possono derivare se le considera illegali, sbagliate o inopportune, ha sempre aperta la via corretta e doverosa delle dimissioni” (1988).
E non sembra esserci altra strada se la volontà dei patiscenti impone scelte dannose per la società.
Fermo restando che il Presidente dovrebbe pervenire a questa soluzione estrema dopo aver operato con tutti i mezzi in proprio possesso (dalla moral suasion all’impugnazione della delibera che lo avesse visto in minoranza) per evitare il danno alla società.