Grazie a Salvatore Sanzo, avvocato di qualità, giurista energico e caro amico, chi scrive ha avuto occasione di interessarsi di una questione, pendente dinanzi al Tribunale di Genova, nella quale si discuteva l’eventuale responsabilità del liquidatore di una società per azioni e del collegio sindacale, per la perdita dell’unico asset, consistente in una partecipazione sociale di maggioranza in una società quotata.

Tale perdita era avvenuta a seguito della ricostituzione del capitale di questa società partecipata, con totale esclusione dei soci a vantaggio di un investitore istituzionale, pronto a sottoscrivere integralmente il ripianamento delle perdite e la ricostituzione del capitale sociale.

La ricostituzione del capitale prevedeva la motivata esclusione dei soci, rappresentata in maggioranza dalle società in liquidazione e, per il resto, dai detentori delle azioni quotate.

Si ragionava, allora, sulla responsabilità per la perdita della partecipazione sulla base della normativa sostanzialmente limitata dall’art. 2441, co. 5° c.c. e all’art. 72 della direttiva UE 2017/1132 del 14 giugno 2017.

Per questa materia, oggi occorre avere riguardo anche al decreto legge 16 luglio 2020 n. 7 che apporta semplificazione all’art. 2441, con una normativa in vigore sino al 30 aprile 2021.

Valutiamo quindi il prima e il dopo e cioè la normativa ordinaria e quella emergenziale.

 

1) L’esclusione del diritto di opzione doveva considerarsi legittimo solo quando l’interesse della società lo esigeva (art. 2441 co. 5°) e questo interesse poteva essere interpretato nell’esclusivo senso di un’operazione essenziale per la sopravvivenza della società. L’interesse doveva essere quindi concreto ed effettivo e non astratto e potenziale.

Era necessario peraltro che le ragioni dell’esclusione o della limitazione del diritto di opzione fossero esattamente puntualizzate. Pertanto l’esclusione si considerava legittima (e dunque risultava valida la delibera che aveva assunto questa decisione), se non ispirata da un abuso di maggioranza e se era dimostrato il nesso logico di inevitabilità dell’offerta a terzi per la riuscita di quella specifica operazione di aumento/ricostituzione del capitale sociale.

L’interesse sociale doveva essere quindi esattamente motivato e la società doveva  osservare compiutamente la procedura prevista dalla norma. Procedura che implicava un obbligo di approntamento di una relazione da parte degli amministratori, con le specifiche ragioni dell’esclusione dei soci; la comunicazione della relazione all’organo di controllo e quindi, nel caso di specie, al collegio sindacale; un parere da parte di questo organo sulla congruità del prezzo di emissione indicato dagli amministratori; il deposito nei 15 giorni antecedenti l’assemblea della relazione, del parere e della stima di conferimento in natura; la decisione dell’esclusione operata dall’assemblea.

Il piano industriale e finanziario che legittimava l’esclusione doveva essere verificabile e verificato, come i criteri adottati per la determinazione del prezzo di emissione.

Prezzo che doveva essere commisurato sulla concreta corrispondenza dei valori patrimoniali e reali della società e non al semplice dato contabile.

L’art. 2441 c.c. prevede infatti che il diritto d’opzione “possa essere escluso o limitato, con la deliberazione di aumento del capitale sociale quando l’interesse della società lo esige”.

2) I contrasti interpretativi sulla rilevanza dell’interesse sociale vedono prevalere una visione per la quale la sottoscrizione dell’aumento di capitale ad opera del terzo si prospetti in concreto “preferibile” nei confronti di scenari diversi, al fine di raggiungere un risultato utile sul piano economico-patrimoniale. Così:  Trib. Milano, 31 gennaio 2005, in Giur. It., 2005, 1865; Marchetti (art. 22 e 23, in DPR 10 febbraio 1986 n. 30, in Nuove leggi civili commentate, 1988, 1, 180).

In giurisprudenza si precisa peraltro che l’interesse della società debba essere concreto ed effettivo e non astratto o potenziale (tra le altre, Trib. Milano, 7 febbraio 2006, in Soc. 2006, 853; Cass. 7 novembre 2008, n. 26842, in Soc., 2009, 26).

Dunque occorre chiarire con quale metro si debbono verificare i concetti di necessarietà o di preferibilità dell’operazione. Concetti questi che impongono di concentrarsi “sull’intera operazione di aumento di capitale con esclusione dell’offerta in opzione ovvero, posta una data operazione di aumento del capitale decisa discrezionalmente dall’assemblea nel perseguimento di uno specifico interesse, in sé, sul collocamento delle azioni nei confronti dei terzi e non degli opzionisti. In accordo con tale motivazione va rilevato allora che il disposto di legge conduce in effetti a propendere nel secondo senso, atteso che l’art. 2441, co. 6° impone agli amministratori, nel più generale contesto dell’illustrazione delle “proposte di aumento di capitale” un onere di specifica puntualizzazione delle ragioni “dell’esclusione o della limitazione” e non in via diretta dei motivi dell’aumento di capitale a cui quell’esclusione si colleghi (con un nesso di necessarietà o convenienza). E ciò, del resto, è del tutto coerente con la generale assoluta libertà dell’assemblea nell’adozione delle sue scelte organizzative, alla quale si contrappone invece il più delimitato spazio di azione dell’organo di gestione, la cui discrezionalità deve invece muoversi nell’ambito delle operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale (art. 2380 bis)”. E. Ginevra, Art. 2441, in Le società per azioni, diretto da Abbadessa, Portale, tomo II, Giuffrè, 2016, p. 2629).

Se ne ricavava, nel caso genovese, che l’esclusione dei soci poteva considerarsi legittima, con conseguente validità della delibera, solo se indispensabile per la realizzazione anche dell’interesse sociale, ma soprattutto del piano finanziario e industriale a cui mirava la delibera di ricostituzione del capitale. Si doveva dunque dimostrare inequivocabilmente che quel piano imponeva un collocamento esterno.

Competeva peraltro al giudice verificare il nesso logico di inevitabilità dell’offerta a terzi, per la riuscita di quella specifica operazione di aumento di capitale oggetto del piano di risanamento. Sul punto App. Torino, (1 giugno 2006, Giur. It. 2007, 659).

Il caso esaminato dalla Corte torinese verificava l’interesse della società all’offerta delle azioni in opzione solo ad alcuni soci e non ad altri, ritenendo che ai primi soci spettasse anche il diritto di prelazione sull’inoptato.

Il caso di Genova che si esaminava alla luce della normativa ricordata era certamente motivato, anche se interpretava l’orientamento della Corte di Appello di Torino con una sorta di corto circuito logico-giuridico: se si è ritenuta legittima la limitazione del diritto per alcuni soci, altrettanto legittima sarà l’esclusione di tutti i soci.

Di fatto, nel caso genovese, la proposta di ricostituire il capitale sociale e salvare la società dal fallimento non vedeva opposizione né dal socio di maggioranza, né dagli investitori di Borsa. E vi erano buoni motivi per valutare l’opportunità di un’operazione di salvataggio della società controllata.

 

3) D’altra parte, c’è chi ritiene fuorviante dare eccessivo peso alla dizione “diritto di opzione”, ritenendo più corretto parlare di “procedura di opzione”.

“L’esame del diritto di opzione è tutta racchiusa nel dovere degli amministratori di seguire una meticolosa procedura, nell’offerta delle azioni (o delle obbligazioni) convertibili di nuova emissione” (Spolidoro, Nuove e diverse soluzioni di aumento del capitale e diritto di opzione in situazioni di emergenza. Riv. soc., 2020, fasc. 2° e 3°, 408).

“L’unico obbligo della società consiste nel rispettare le procedure di opzione, rispettando un certo ordine di offerte in sottoscrizione” (Spolidoro, op. cit., 409).

Senza sacrificare però l’interesse del socio a non subire senza comprovati e verificabili motivi un annacquamento del valore patrimoniale della sua partecipazione (nel caso genovese il socio subiva l’annullamento della propria partecipazione).

A queste condizioni, l’interesse della società si concentra sul risultato dell’operazione di aumento, per ottenere il capitale necessario al programma industriale (ripianamento di debiti, consolidamento del patrimonio, acquisizione di partecipazioni o imprese), nel minor tempo possibile e a condizioni vantaggiose.

Finalità che il nostro ordinamento recepisce, al 4° co. dell’art. 2441 c.c., laddove si prevede che: “Nelle società con azioni quotate ai mercati regolamentati lo statuto può altresì escludere il diritto di opzione nei limiti del 10% del capitale sociale preesistente, a condizione che il prezzo di emissione corrisponda al valore di mercato delle azioni e ciò sia confermato  in apposita relazione da un revisore legale o da una società di revisione legale”.

Per il vero, questa previsione potrebbe contrastare con l’art. 72 della Direttiva UE che vieta di escludere nello statuto della società la previsione della procedura di opzione.

 

4) Osservazione che non ha impedito al legislazione dell’emergenza di modificare il 4° co. dell’art. 2441, con D.L. 16 luglio 2020, n. 76: (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), il quale prevede che dal 15 settembre 2020 al 30 giugno 2020, le società con azioni quotate ai mercati regolamentati o negoziati in sistemi multi laterali di negoziazione possono deliberare l’aumento del capitale sociale mediante nuovi conferimenti, con esclusione del diritto di opzione ai sensi dell’art. 2441, 4° co. c.c., anche in mancanza di espressa previsione statutaria, nei limiti del 20% del capitale sociale preesistente.

La riforma, pur apprezzabile, sembra sicuramente molto timida e la tematica della patrimonializzazione delle società di capitali avrebbe meritato un intervento più incisivo. Infatti, al netto dei tentativi di abusare dei propri mezzi economici da parte della maggioranza societaria, la necessità di apportare capitali nuovi dall’interno e dall’esterno della compagine sociale all’impresa imporrebbe una snellezza procedurale maggiore di quella attuale, anche tenendo conto della riforma nell’emergenza.

Ma dove non arriva il legislatore si spera che arrivi la lungimiranza degli amministratori e soprattutto delle compagini sociali delle società italiane.

Con ciò intendiamo dire che, nel rispetto dei diritti della minoranza (e a noi sembra che il mantenimento della caratura societaria sia un diritto), perseguire la capitalizzazione della società deve oggi considerarsi un obiettivo primario per la sopravvivenza e per l’efficienza dell’impresa e per la tenuta del nostro sistema economico e finanziario.