Il conflitto societario costituisce una possibile causa di scioglimento del rapporto sociale e, a volte, una delle principali cause di insolvenza dell’impresa.
Peraltro le divergenze tra soci sulla conduzione della società e sulle scelte che essa deve assumere, sono endemiche, sin dalla costituzione del rapporto sociale.
E questo perché i soci sono spesso portatori di interessi diversi e comunque perché intendono quasi sempre partecipare al governo della società o, per lo meno, non essere esclusi dalle decisioni più rilevanti.
Le divergenze non hanno necessariamente per oggetto le grandi decisioni, ma possono spesso prodursi per cause secondarie e banali (l’assunzione di un familiare, il licenziamento di un collaboratore).
Il fatto è che, una volta che le ostilità abbiano preso consistenza, si determina una spaccatura che crea una maggioranza ed una minoranza, basata sulle diverse carature societarie, perché le quote di partecipazione normalmente si contano (con buona pace di chi sosteneva che si pesano).
A volte infatti la frattura vede in minoranza l’uomo-azienda e non sempre costui è in grado di imporre la propria linea, anche questa potrebbe se costituire il miglior modo per realizzare l’interesse sociale.
A volte poi non si distingue una maggioranza da una minoranza ed è il caso delle partecipazioni paritetiche.
In tutti questi casi, però, il conflitto tra soci si riflette nella gestione della società e determina particolari problemi per gli amministratori e tanto più per il Presidente del C.d.A. Quest’ultimo, infatti, è stato nominato dalla maggioranza dei soci, quando non sia esso medesimo un socio di maggioranza. Quale amministratore ha il dovere di agire nell’interesse della società e questo implica il fatto che deve attivarsi per risolvere il conflitto societario.
Contemporaneamente, quale componente della maggioranza, societaria sarà tentato di marginalizzare e contrastare le iniziative che la minoranza pone in essere per raggiungere i propri scopi (diventare maggioranza, trovare un equilibrio nella gestione dell’impresa o essere liquidata).
Le iniziative di un Presidente del C.d.A., schierato con la maggioranza, possono essere molteplici e possono facilmente alterare l’equilibrio di posizioni. Si pensi alla mancata convocazione dell’assemblea o del C.d.A. legittimamente richiesta da una minoranza qualificata di amministratori o di soci (questa inerzia potrebbe essere legittimata solo dalla manifesta pretestuosità ed infondatezza della richiesta).
Si pensi ad una conduzione non equidistante degli organi collegiali: il Presidente dell’assemblea ha poteri che possono interferire pesantemente nella deliberazione dei soci e solo l’impugnazione della delibera dinanzi l’autorità giudiziaria può ristabilire la legalità violata.
Ma il riequilibrio avverrà in un tempo più o meno lungo, quando gli effetti del comportamento del Presidente possono essersi già prodotti, a danno della minoranza, quando non anche a danno della società.
Il Presidente, nella sua gestione dell’assemblea dei soci, in presenza di conflitto societario dovrebbe essere in grado anche di individuare la delibera viziata da eccesso o da abuso di potere.
Tale delibera è stata definita come segue: “L’eccesso di abuso di potere nel voto dei soci nell’assemblea consiste nello strumentalizzare la deliberazione che l’assemblea assumerà alla soddisfazione di interesse proprio ed esclusivo della maggioranza ad essa favorevole ovvero di terzi, ma in assenza di interesse della società in contrasto con esso” (Trib. Milano, 22 gennaio 2015, Soc., 2015, 829 e segg.).

Simmetricamente, il Presidente del Consiglio di Amministrazione dovrebbe esaminare tutti i casi in cui si perviene alla definizione del conflitto societario, in forza di un contratto annullabile, per la minaccia di far valere un diritto.
Succede, infatti, in casi non sporadici, che il socio di minoranza ottenga di definire il proprio rapporto societario con un recesso che riconosca un exit particolarmente vantaggioso per lui e danno per la società.
A volte ciò succede quando viene minacciata la presentazione della denuncia di gravi irregolarità gestionali e, prima della discussione della medesima, si pervenga ad una soluzione transattiva, particolarmente onerosa per la società.
Questo potrebbe essere il caso in cui il contratto possa essere annullato per la minaccia di far valere un diritto. La quale minaccia, secondo l’insegnamento della Corte di Cassazione: “richiede, anzitutto, la sussistenza di un preesistente diritto dell’autore, nonché la possibilità di farlo valere nei confronti del soggetto passivo e, quindi, la ricorrenza della minaccia di esercitarlo.
Tale minaccia peraltro è causa invalidante il negozio giuridico solo quando l’autore di essa se ne serva per conseguire non già il risultato ottenibile con l’esercizio del diritto, ma vantaggi ingiusti, ossia abnormi o diversi da detto risultato e obiettivamente iniqui ed esorbitanti rispetto al dovuto” (Cass. 13 febbraio 2009, n. 3646).
Se il contratto è iniquo, ovverosia, se sussiste l’obiettiva sproporzione delle prestazioni o l’attribuzione di diritti non giustificati dall’economia dell’affare, la liquidazione della quota del socio recedente potrebbe, non solo determinare una situazione giuridica viziata, ma anche produrre un danno economico per la società.
Sotto questo aspetto il Presidente deve in qualche modo garantire che quel particolare risultato ottenuto dal socio di minoranza, con la minaccia di far valere un giudizio, non determini un danno ingiusto per la società. Glielo impone il suo ruolo di garante dell’integrità del patrimonio sociale.
Nei casi in cui il Presidente non mantenga una sufficiente equidistanza, dobbiamo chiederci quali rimedi possano essere adottati per limitare i danni per la società.
La revoca del Presidente (e dei consiglieri di amministrazione) è prevista dal nostro codice sia in forma di delibera assembleare, che in forza di provvedimenti giudiziali (attivati ai sensi dell’art. 2476 per le Srl o 2409 per le SpA).
Ma i motivi di revoca non possono basarsi soltanto su semplici dissidi personali o incomprensioni con gli altri amministratori o con i soci (Tribunale Udine, 13 giugno 1994, in Riv. Soc., 1995, 98).
Occorre, infatti, una giusta causa soggettiva (comportamento dell’amministratore che abbia minato il rapporto di fiducia alla base dell’incarico) o oggettiva (ad esempio un procedimento giudiziale tra amministratori e la società: Appello Milano, 30 aprile 1991, in Giur. Comm. 1992, II, 95).
Una recente decisione della Corte di Cassazione (14 maggio 2012, n. 7425, in Le società, 2013, 336 e segg.) ha riconosciuto la legittimità della revoca del Presidente del C.d.A. che abbia atteso lungamente prima di rendere note ai soci le situazioni di mala gestio, precedenti la propria nomina e non abbia adottato nessun provvedimento per la loro soluzione, venendo meno al proprio dovere di diligenza.
Il ricorso all’autorità giudiziaria, evidentemente, si consiglia solo quando l’atteggiamento del Presidente è talmente sbilanciato da alterare il necessario equilibrio tra i soci e da compromettere anche, o alternativamente, il primario interesse della società.