Da un secolo, ormai, il binomio etica-impresa ha originato la definizione di responsabilità
sociale dell’impresa medesima, definizione che implica andare oltre l’adempimento degli
obblighi giuridici, investendo nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le parti
interessate.
Il binomio etica-impresa richiama alcuni obiettivi ben determinati: uno sviluppo sostenibile,
una realizzazione del profitto di impresa compatibile nei tempi e nei modi con le esigenze
degli stakeholders, l’attuazione di un principio di equità intergenerazionale.
Da qui il fiorire di codici etici che definiscono i valori fondamentali che dovrebbero essere
rispettati nella gestione degli affari, tramite un governo dell’impresa che sappia gestire i
rischi industriali, sociali, ambientali.
Il tutto nella convinzione che la responsabilità economica è conveniente (be profitable)
come lo è la conformità ai dati normativi (obey the law) e ad una base etica (be etichal).
In quest’ottica acquista valore anche la comunità nella quale l’impresa vive e si
sviluppa (si veda: CARNEVALE, Etica e impresa, in www.unicef.it).
Su questi principi si sono scritte infinite regole di corporate governance e si sono
contemporaneamente verificati casi di malaffare, di corruzione, di pirateria finanziaria.
(Sulla sostanziale inutilità dei codici etici: G. ROSSI, Il gioco delle regole, Milano, 2006:
“Sui principi etici di qualsiasi forma – e specie se di forma thin – appare dunque
pericoloso fondare, o modificare, orientamenti giuridici. Le due sfere debbono rimanere
separate: è bene che la prima continui ad orientare, per chi vi aderisce, il
comportamento di tutti i giorni e la seconda le varie modalità del vivere associato.
Benché il mondo – degli affari, ma non solo – appaia sempre meno controllabile,
pensare di ricondurlo all’ordine redigendo manuali (etici), per qualsiasi circostanza…
(omissis) nella realtà che ci circonda provoca, tuttalpiù, un fiorire di casi paradossali”.
Il binomio etica-impresa non può infatti essere un’etichetta, una medaglia da appuntarsi
preventivamente sul bavero della giacca, non può sostituire un progetto sul tipo di società
che si vuole realizzare, sul tipo di amministratore che si vuole essere, riallineando una
pratica specifica con valori intrinseci ed autovalutati, senza aver condiviso una
impostazione etica coerente esterna a quei valori.
Il fine dell’economia è la ricchezza, diceva Aristotele nell’Etica Nicomachea. Ci si può
chiedere allora in che senso la produzione di beni e servizi, a scopo commerciale, sia un
bene per la collettività e non solo per il produttore.

L’impresa economica, per definizione, mira al profitto, ma – a ben vedere – non solo a
questo, perché il profitto si ottiene non solo per il prodotto o servizio in sé, ma anche per
la qualità e il modo in cui si è realizzato quel prodotto.
La misura del profitto, infatti, è in proporzione con la qualità dei processi produttivi.
Le teorie sul capitalismo temperato (creating shared value) leggono l’impresa non
come un agente di sfruttamento delle risorse, dei dipendenti e dell’ambiente ma, quasi
al contrario, come un’opportunità per realizzare benefici sociali: occupazione,
infrastrutture, benessere, cultura. Leggiamo queste tematiche sul capitale temperato in
MORDACCI,“Etica e impresa”, Etiche applicate. Una guida, Roma, 2018, 199 ss., che
riporta la tesi di PORTER e KRAMER, Creating Shared Value, in Harvard Business Review,
2011, 1, 17.
Afferma Mordacci: “Fanno parte quindi dello scopo del profitto valori come il capitale
immateriale, ovvero non solo il patrimonio dell’azienda, i suoi beni, i suoi mezzi di
produzione, ma anche quel valore decisivo che è la reputazione”, ivi, p. 202.
Questa lettura, meno ingenua di quanto possa a prima vista apparire, supporta la teoria
della responsabilità sociale di impresa.
Dunque lo scopo di fare impresa ha un valore, che è relativo al modo in cui l’impresa
realizza profitti e che può comportare una dimensione morale e sociale (questa sì)
intrinseca.
La reputazione del produttore e dell’impresa costituisce un capitale immateriale che è
parte del profitto e consiste nel modo in cui l’attività imprenditoriale è percepita e in
riferimento a valori morali quali l’onestà, la trasparenza, il rispetto dei dipendenti, il senso
di responsabilità.
Dunque il bene, secondo questa argomentazione, consiste nel come si fanno le cose e
questo comporta l’assunzione di responsabilità per l’attività di impresa e per le ricadute
che questa attività ha sui terzi ed il territorio.
Da questo si genera quella fiducia che è alla base di ogni attività innovativa e dunque del
progresso.
Pur sottolineando l’ingenuità apparente di una lettura dell’economia che sembra
prescindere da una analisi della realtà concreta e che sembra dimenticare lo sfruttamento
delle risorse e degli uomini, si deve pur riconoscere che l’etica dei principi (dalla filosofia
greca alla tradizione giudaico-cristiana) non può essere abbandonata, se non ci si vuole
affidare ad un etica à la carte e cioè senza soluzioni definitive, come chi affronta ogni
problema senza un metodo e senza un riferimento.
Quindi la ricerca di valori fondamentali, universali per l’agire umano è importante e
produttivo, a patto che si tenga ben separato il diritto dalla valutazione etica.