Parlare di conflitto tra soci di una società commerciale crea spesso un po’ di imbarazzo e ci si aspetta sempre una presa di distanza, una qualche forma di condanna.

E’ infatti comune esperienza che la pace societaria, la condivisione delle modalità di gestione dell’impresa siano un bene assai importante.

Il conflitto tra soci però è endemico, come sappiamo, così come in ogni sodalizio umano è endemico il confronto e lo scontro tra diverse personalità, diversi modi di pensare e di agire.

Non possiamo ipotizzare peraltro che, quando i soci si contendono la gestione dell’impresa, lo spirito di competizione possa portare a risultati più efficienti. Quasi sempre infatti il conflitto rischia di arrecare un danno, più o meno grave, all’impresa.

Una delle caratteristiche dello scontro consiste infatti nel concentrare sull’esito del conflitto le capacità economiche, professionali, intellettuali dei contendenti, nel tentativo di raggiungere lo scopo voluto. Scopo che consiste nell’ottenere un nuovo ordine societario (attraverso nuovi accordi o tramite il recesso del socio dissenziente o attraverso la scissione dell’impresa e così via) ma a prezzi spesso molto alti e non sempre utilmente pagati.

Da qui la necessità di riflettere sull’esperienza concreta della conflittualità societaria e sugli effetti, altrettanto concreti, che questa ha sui risultati dell’impresa.

Partendo dal presupposto che non si può considerare la contesa tra soci come un gioco, così come non lo è qualunque scontro che implichi una certa dose di violenza.

Riconoscere che il contenzioso può avere implicazioni molto gravi, significa ricordare il legame profondo tra il conflitto e le normali attività umane, da quelle economiche a quelle legate alla convivenza, al comune atteggiarsi nel rapporto con il prossimo.

Su questo tema si segnala un testo appassionante (Bregman, Una nuova storia (non cinica) dell’umanità, Feltrinelli, 2020), da poco tradotto nella nostra lingua e che dimostra in poco più di 300 documentate pagine che l’uomo è tendenzialmente pacifico e che diviene aggressivo solo in circostanze particolari.

Per questo abbiamo assistito nella storia dell’umanità, delle società commerciali e degli Stati alla vera e propria “invenzione” del nemico.

Nel concetto di nemico, infatti, è inserito il rapporto tra l’esterno e la coesione interna di un gruppo. “Avere un nemico è importante, non solo per definire la nostra identità, ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro.”  (Eco, Costruire il nemico, La nave di Teseo, 2020, 10).

Studiare dunque il conflitto societario non significa contemplare lo scontro, facendo il tifo per l’una o per l’altra parte, quanto trasformarlo, demitizzandolo, studiarne le strutture e i meccanismi e questo può servire a modificare le conseguenze del conflitto, quando questo sia inevitabile.

“E’ difficile sradicare e anche semplicemente cogliere una realtà che sembra diffusa dappertutto, dai meccanismi ideologici ai rapporti interpersonali, a quelli societari: anche perché la guerra è fatta certo di eserciti, di violenza organizzata e di armamenti, ma altresì di blocchi economici, di manovre finanziarie, di espedienti diplomatici”. (Cardini, Quell’antica festa crudele, Il Mulino, 2013, 416).

Fatte le proporzioni debite, se sostituiamo il termine “conflitto tra soci” a quello “guerra”, non troveremo gli eserciti, la violenza materiale e organizzata e gli armamenti; ma certamente troviamo una diversa forma di aggressitivà, quella consentita dal nostro ordinamento giuridico. L’irrompere dei causidici, i ricorsi ai tribunali specializzati o alle autorità garanti, i “dispetti” economici, le manovre finanziarie, i blitz assembleari, gli espedienti tattici e diplomatici sono una forma di guerra, condotta con altri mezzi.

Come per gli ideali cavallereschi di un tempo, il diritto internazionale prima, la smitizzazione dei filosofi settecenteschi poi, hanno rappresentato tentativi diversi di umanizzare e limitare i conflitti (poiché è palese utopia voler razionalizzare tutto). Così ragionare sul conflitto societario può essere un contributo pratico e concreto per dare razionalità alle motivazioni profonde (spesso psicologiche, più che economiche o finanziarie) di un contenzioso societario, offrire strumenti per prevenire gli effetti più disastrosi dello scontro, limitare gli scontri stessi.

In sostanza: verificare se lo scontro può essere gestito secondo principi etici condivisi e conformi all’etica di impresa.

Quando due soci litigano, si verifica uno strappo tra due identità, fino a poco prima non evidente, come era però abbastanza evidente la differenza che comunque esisteva tra gli stessi soci. Ci si rende conto improvvisamente che tra due o più soggetti c’è comunque un divario, che a volte l’amicizia (o la consonanza di interessi) copre per un periodo più o meno lungo.

L’avversario è, come l’amico-socio, uno specchio di noi stessi.

E acquisire la consapevolezza di questa distanza e contemporanea vicinanza significa affrontare la realtà senza un animoso desiderio di rivincita e di sopraffazione, di vittoria a tutti i costi, di distruzione dell’avversario.

Dunque, se siamo in grado di superare la comune convinzione che il conflitto tra soci sia comunque un dato negativo, se siamo in grado di vedere lo scontro tra i medesimi come un rapporto complesso, fatto di mosse e contromosse, in parte sostenute sul piano giuridico, ma profondamente radicate nella visione della società e della vita, che i soci in contesa portano con sé; se diamo per scontato che poche cose sono per sempre nella vita di un essere umano, possiamo affrontare la contesa tra soci per il governo societario con sufficiente apertura mentale per comprenderne tutti gli aspetti, valorizzare quelli positivi e scongiurare quelli negativi, che possono portare persino al fallimento della società.

Una frase tipica del socio di maggioranza che non vuole ascoltare le pretese, più o meno legittime, del suo sodale è infatti: “Piuttosto fallisco!”.

Occorre però evitare che una frase dettata dall’ira o un comportamento impulsivo diventino il modo scelto per dirimere la controversia col proprio socio.

Spesso la lite tra soci non può essere lasciata alla gestione dei contendenti, ma deve essere analizzata, controllata, composta con professionalità, che comprenda non solo gli aspetti tecnico-giuridici, ma anche e soprattutto quelli relativi alla continuità dell’impresa, oltre naturalmente quelli umani e psicologici.

Insomma il conflitto può e deve rispondere a regole etiche, non solo a quelle del profitto che ciascuno dei contendenti vuole ottenere.