Corriere di Verona
Articolo di Lamberto Lambertini

In queste settimane è venuto a mancare un giurista di alta qualità e di grande esperienza nella amministrazione di imprese pubbliche e private quali Ferruzzi e Telecom , nella presidenza di Consob e nel commissariamento di Federcalcio. E’ opportuno allora ricordare che il prof Guido Rossi era solito criticare la gestione italiana delle imprese, ritenendola immobilistica, non contendibile , finanziata dalle banche e non dai soci. In particolare Rossi riteneva che i codici etici fossero inadeguati a garantire un governo corretto delle imprese, che i patti parasociali consentissero a una piccola minoranza di gestire le aziende con incroci societari incestuosi, che gli amministratori indipendenti fossero dei gigolò ben poco autonomi. Questa definizione Rossi l’aveva mutuata da un articolo del 1913 di Cesare Vivante, che prendeva di mira gli allora componenti dei collegi sindacali, quando la normativa permetteva di considerare tale carica una sinecura.

Oggi però amministratori esecutivi o indipendenti, esattamente come i sindaci, debbono osservare normative stringenti, che impongono preparazione tecnica, diligenza specifica, capacità gestionale per il perseguimento dell’oggetto sociale, alieni da conflitti di interesse. Non possiamo purtroppo affermare che il governo delle nostre società sia gestito come prescritto dalle norme e siamo spesso tutti costretti a verificare gli effetti delle cattive gestioni, il disprezzo dell’etica d’impresa, il malaffare diffuso che porta, quasi ogni giorno, alla scoperta di illeciti gravi a danno non solo dell’economia ma anche della credibilità del nostro Paese.

Ora queste deviazioni dalla corretta gestione, per quanto diffuse, restano fortunatamente limitate e sono il frutto di difetti strutturali del nostro sistema economico molto precisi e ben individuati. La gestione di un’impresa , grande o piccola, privata o pubblica, posseduta da una famiglia o da un azionariato diffuso, deve soddisfare tre interessi fondamentali: creare ricchezza, competere lealmente, aggiornare quotidianamente tecnologia e strategie per durare nel tempo. E per questo occorre riconoscere che l’interesse dell’azienda va al di là di quello dei suoi soci e dei suoi amministratori e che deve essere soddisfatto prima della giusta aspettativa di ottenere dividendi o di realizzare finalità diverse e divergenti. E ciò succede quando in una impresa familiare non si capisce l’incapacità gestionale del figlio chiamato a succedere, quando l’imprenditore confonde la propria ricchezza personale con il patrimonio dell’azienda, quando nelle aziende a partecipazione pubblica prevale un interesse partitico rispetto a una gestione razionale dell’impresa. Per questo ultimo aspetto si potrebbe persino sospettare che l’idiosincrasia per il privato nasconda la volontà dei partiti di continuare dettare la loro legge e ad imporre i loro uomini in società che necessitano di competitività, di concorrenza , di strategia imprenditoriale e non politica.

Ovviamente questo è solo un cattivo pensiero, che sicuramente non trova spazio nella realtà. Ma quando si legge che sarebbe fantasioso privatizzare la Fondazione Arena si deve sorridere, perché le Fondazioni che gestiscono la lirica sono enti di diritto privato da oltre vent’anni e sicuramente necessitano di una revisione dei loro statuti , introducendo managerialità , compartecipazione con mecenati , condivisione con gli artisti in organico. Dunque finalità che attengono al privato, in un ente già di diritto privato.

E quando un partito – non la politica, si badi bene – detta le regole gestionali di un ente a partecipazione pubblica, ci si deve allarmare . Non perché non sia legittimo che un partito si proponga una corretta strategia per tutti i cittadini attraverso la gestione di un’azienda partecipata, ma perché non è legittimo perseguire interessi di parte, di partito o di formazione politica, attraverso una realtà economica di proprietà pubblica. Chi la pensa diversamente deve chiedere perché non abbia ottenuto il suo scopo la legge che prevedeva di dare in mano ai privati le aziende che un tempo si chiamavano municipalizzate. E forse si risponderà che è difficile per chi persegue l’interesse dell’azienda condividere le scelte con chi persegue un interesse parziale quale è quello di un partito .

Dunque per non dare ragione postuma a Guido Rossi, ci si deve augurare che gli amministratori di realtà economiche pubbliche e private siano autonomi da suggestioni non imprenditoriali, possiedano la competenza necessaria per guidare macchine complesse, si propongano di migliorare le loro aziende, paghi della riconoscenza che la comunità saprà riconoscere.

E allora sapremo che alla ripresa economica si unirà una ripresa eticamente competitiva nella quale sarà più facile sperare di raggiungere migliori livelli di benessere per tutti e non solo sul piano strettamente economico.

Articolo pubblicato sul Corriere di Verona