1) Premessa – 2) Il mandato implicito e le sue conseguenze sull’autonomia ed obiettività – 3) I pareri non-pareri – 4) La responsabilità dell’autore del parere – 5) Come ottenere un parere utile

1) Premessa
Una recente esperienza un po’ amara  e la lettura di un aneddoto istruttivo[1] sollecitano qualche considerazione aggiornata2 sulla prassi diffusa di richiedere pareri legali e sul contenuto dei medesimi3.

L’interesse a chiedere un parere infatti è “quello di ottenere dal tecnico gli elementi di valutazione necessari ed i suggerimenti opportuni, onde poter adottare consapevoli decisioni a seguito di un apprezzamento ponderato di rischi e vantaggi”4.

Le “consapevoli decisioni” hanno oggetti molto diversi tra loro, così come diversa è l’attività richiesta dall’avvocato, a seconda delle sue specializzazioni.

Come cercheremo di motivare, la gran parte di questo materiale non raggiuge lo scopo e, a volte, finisce per essere persino controproducente.

Per quanto riguarda il parere prodotto in giudizio, ci sembra difficile superare in efficacia le parole di Calamandrei. L’elogio dei giudici scritto da un avvocato, Ed. Ponte alle Grazie, 1989, p. 36; “Io ho fiducia degli avvocati –mi diceva un giudice- perché apertamente si presentano come difensori di una parte e confessano con questo i limiti della loro credibilità; ma diffido di certi giureconsulti della cattedra che, senza firmar le comparse e assumere apertamente l’ufficio di difensori, mandano dentro all’incartamento di causa, indirizzati a noi giudici come se fossimo loro scolari, certi loro pareri che chiamano <per la Verità>, quasi volendo farci credere che in queste consultazioni su commissione essi non intendono fare opera di patrocinatori partigiani, ma di disinteressati maestri che non si curano delle cose terrene. Questo modo di fare mi sembra indiscreto per due motivi: primo, perché se il consilium sapientis era in uso quando i giudicanti erano analfabeti, offrire oggi al magistrato che ha la sua laurea una cosiffatta lezioncina a domicilio, non è fargli un complimento; secondo, perché non si riesce a comprendere come avvenga che, in questi pareri inseriti in un fascicolo di parte, la Verità, col V maiuscolo, coincida sempre coll’interesse della parte che allega il parere.” (Elogio dei giudici, Firenze 1989, pag. 36).

Per quanto riguarda invece i pareri che orientano un’attività amministrativa, sia essa di carattere economico-privatistico, che di carattere pubblicistico è persino banale ricordare che la responsabilità personale degli amministratori per le attività che pongono in essere, non può certo trovare salvacondotti in pareri di terzi.

Per quanto riguarda poi il parere sulla scelta processuale di dare inizio o meno ad una causa o ad un arbitrato e/o resistere ad una pretesa altrui giudiziale od arbitrale, le difficoltà di prevedere l’esito di un giudizio sono rilevantissime e quasi insuperabili.

E questo per motivi diversi, il primo dei quali è costituito dalla mancata soggezione dei nostri tribunali al ruolo nomofilattico che dovrebbe essere proprio delle decisioni della Corte di Cassazione.

Peraltro è la stessa Corte che, a volte, si esprime in modo contraddittorio, anche quando ha affermato consacrandolo un principio di diritto a sezioni unite.

Per questo le considerazioni che seguono riguarderanno il difficile utilizzo dei pareri legali; la probabile mancanza di obiettività ed autonomia degli stessi e quindi la probabile inattendibilità dei medesimi; la responsabilità degli autori; la proposta di una soluzione per dare attendibilità e utilizzabilità a questo prodotto giuridico che dovrebbe rappresentare una forma di particolare qualificazione per chi lo redige5.

 

2)  Il mandato implicito e le sue conseguenze sull’autonomia ed obiettività

Il parere è per definizione funzionale ad uno scopo ed è per questo che non può dubitarsi del fatto che “l’affidamento di una consulenza contiene implicitamente un mandato: che esso sia favorevole”6.

L’autonomia e l’obiettività della scienza giuridica, che rappresenta il valore per il quale si richiede il parere, sono chiamate a sottomettersi agli interessi economici (in qualche caso anche alle seduzioni mediatiche), in forza dei meccanismi sociali che orientano la sua pratica, poteri economici che determinano strutture cognitive, razionali o irrazionali, funzionali ad assorbire il mandato del committente.

Se queste suggestioni condizionano l’autore, il parere perde il proprio valore, costituendo a quel punto un atto di parte e non più un distillato di scienza giuridica, neutrale ed indipendente.

In molti casi l’autore del parere è convinto che, nonostante il mandato ricevuto, la sua opinione non ne risentirà, perché, in fin dei conti, è lui il depositario della verità (di quella legale, almeno) ed il committente dovrà attenersi a quanto gli verrà proposto.

Ma nei fatti non è così.

Il fatto è che anche al giurista che si distingue per cultura, posizione professionale e sociale riesce difficile resistere alla tentazione di portare le conclusioni del parere al risultato che il committente si aspetta.

E questo avviene per motivi in buona parte irrazionali “Giudizi e decisioni sono graduate direttamente da sentimenti di simpatia o avversione, senza quasi alcun intervento della riflessione e del ragionamento”7.

Affermazioni di questo genere sono il frutto di centinaia di esperimenti sul comportamento umano, le cui conclusioni possono demolire anche i più solidi sostenitori della razionalità del nostro agire.

Si afferma infatti che: “Valori, sentimenti e scelte si piegano nella direzione che più di tutte aiuta a realizzare i nostri obiettivi – specie se si tratta di obiettivi importanti – trasformando letteralmente la nostra mente in nome di quello scopo”8.

Ed è la nostra mente inconscia che ci porta ad operare così.

“Si comincia a vedere il mondo attraverso le lenti dell’obiettivo prefissato, indipendentemente dal fatto che l’obiettivo da raggiungere sia consapevole oppure no”9.

“I nostri obiettivi esercitano su di noi un influsso talmente potente da avere il sopravvento persino sui nostri valori e sulle nostre credenze più radicate”10. E di ciò non abbiamo consapevolezza neanche quando ci ragioniamo ad obiettivo raggiunto. E nel caso del parere, l’obiettivo è costituito dall’assolvere il mandato che il committente ha conferito all’autore. E questo mandato non attende una soluzione qualunque, bensì quella più vicina alle ragioni che il mandante ha esplicitato.

L’autore naturalmente sarà in grado di motivare, in modo conseguente e razionale, le conclusioni a cui è arrivato. Ma questo non assolve l’irrazionale falsa coscienza che ha portato il ragionamento giuridico a quelle precise conclusioni.

E questo perché a posteriori siamo tutti bravissimi ad inventare ragioni per giustificare il nostro comportamento: la nostra mente è capace di inventare tutte le razionalizzazioni anche per giustificare un comportamento palesemente irrazionale.

Sicuramente si potrebbe obiettare che il giurista ha il dovere etico, prima che deontologico, di essere indipendente ed autonomo e che anzi queste sono, insieme alla cultura, le sue vere dotazioni.

Ma i concetti generici e spesso sfuggenti nei loro contenuti concreti (autonomia, indipendenza, neutralità) debbono essere valutati nel settore specifico, di cui ci stiamo occupando11, tralasciando considerazioni sulle qualità e sui difetti dell’essere umano, sulla sua propensione a correre “in soccorso” dei vincitori (“e noi siamo soliti ad associarci al più forte”, Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis) o per dirla con Jean de La Fontaine: “Giudicando con ragione, anche lui, che ha l’occasione, un sonante ducatone, vale tutta la sapienza” 12.

Il campo giuridico, come tanti altri settori (scientifico, artistico, ecc.) rappresenta un universo particolare, con una logica specifica, legata ai suoi fini e alle caratteristiche dei rapporti che al suo interno giocano.

In questo campo specifico i rapporti di forza si basano in parte sul capitale culturale e su quello economico posseduto dal singolo giurista, ma anche sul capitale sociale (l’insieme delle relazioni influenti di cui si dispone).

Il capitale culturale ha un peso molto rilevante, tanto da poter spesso rappresentare la componente principale del capitale simbolico di un soggetto ed è per questo possesso (reale o comunque accreditato) del capitale sociale che le professioni giuridiche si pongono come rilevanti (o  vengono avvertite come tali), ancora oggi, nonostante il fatto che nel corso di questi decenni si è assistito ad un loro progressivo ridimensionamento, parallelo alla proletarizzazione della professione forense, al suo degradarsi ad una commodity per un’ampia parte dell’attività specifica.

In effetti, nell’espressione del parere, il giurista (e vogliamo inserire in questa categoria anche i pratici del diritto) potrebbe ritrovare una funzione creativa e prestigiosa.

In questa attività ha sicuramente senso parlare di coscienza di sé, di autonomia e prestigio, di senso di responsabilità del singolo avvocato (o accademico), ma occorre realisticamente pensare alle possibili deviazioni che il capitale economico e quello relazionale del committente può determinare, anche a scapito di chi possiede un buon capitale culturale.

E’ vero comunque che la libera professione può fornire gli strumenti e l’autorevolezza necessari per assumere un ruolo critico rispetto alla posizione dominante di chi richiede il parere, a condizione di essere disponibili a mettere in discussione il potere simbolico che il libero professionista è in grado di esercitare, rischiando di perdere una parte almeno di riconoscimento sociale. Riconoscimento frutto di valutazioni complesse che si associa spesso al potere simbolico del cliente.

Per il professionista, la sua lealtà all’ordinamento, la sua neutralità sono il patrimonio di cui dispone, unitamente alla preparazione tecnica e alle doti umane.

Occorre allora ricordare che nel settore giuridico, la situazione dei vari operatori si differenzia molto l’una dall’altra, con un’ampia gamma di posizioni: da giurista dominante (perché influente nell’insegnamento, nei processi, negli arbitrati e a volte anche nella formazione di regole e norme positive), a quello totalmente ininfluente, anche nella piccola comunità in cui opera.

Per tutti però valgono i criteri di lealtà e probità, che sono indubbiamente indipendenti dal reddito percepito o dal potere che si può esprimere.

Tutti peraltro, dominanti o meno, possono essere chiamati ad esprimersi con pareri legali. Quello che cambia è che i giuristi dominanti trattano le questioni più rilevanti sul piano economico o per la maggior importanza del committente, mentre gli altri danno il loro parere facendo prognosi sul risultato di una causa.

Insomma la prassi diffusa di trasformare il giurista in un produttore di pareri funzionali ad uno scopo preciso sembra deprimere il valore del parere medesimo, indipendentemente dalle capacità giuridiche e dalle qualità umane dell’estensore.

L’effetto è che, come già detto, finiamo per considerare tutti i pareri come espressione di un giudizio di parte che, per quanto autorevoli, lasciano spazio ad un’opinione identica e contraria e dunque rischiano di essere inefficaci e, a volte, inutili.

E così il potere simbolico anche dei giuristi dominanti svanisce.

E’ difficile non aderire a queste conclusioni, così come è difficile uscire da questo circolo vizioso.

3) I pareri non-pareri

Capita abbastanza frequentemente di leggere pareri che non formulano conclusioni precise, magari alla fine di una dotta ed approfondita disquisizione sul quesito proposto sull’inquadramento giuridico più corretto, sulle diverse soluzioni che la questione può presentare.

Dalla lettura se esce con una maggiore erudizione, ma senza indicazioni su quali comportamento l’autore ritiene maggiormente adatto al caso di specie, nel rispetto della normativa vigente.

Questa incertezza rappresenta a volte il riscatto orgoglioso del giurista, che vuole adempiere al mandato (o almeno ad una buona parte di esso), lasciando al committente la scelta tra varie opzioni.

In questo caso il committente sanguigno ruggisce e forse ricorda la famosa frase del finanziere JP Morgan: “Non voglio un avvocato che mi dica quello che non posso fare. Lo assumo perché mi suggerisca come fare quello che voglio”.

L’autore del parere, sottraendosi all’indicazione di una scelta precisa, non suggerisce al mandante come fare quello che vuole, ma gli offre diverse soluzioni, lasciandolo scegliere tra queste.

A prima vista la soluzione sembra perfetta, consentendo all’autore di conservare la propria indipendenza, di comunicare la propria scienza, di mettere sull’avviso sui pericoli insiti nella questione, affidando contemporaneamente al mandante una rosa di soluzioni possibili.

Il fatto è che l’autore del parere ha il dovere di sostenere quella che è la soluzione che, a suo avviso e con tutte le cautele del caso, risolve il problema che gli è stato sottoposto.

Sicuramente la decisione finale spetta al committente, ma il consiglio su come operare rappresenta di per se stesso la realizzazione dell’interesse perseguito dal cliente nel conferire l’incarico.

Non basta infatti indicare i rischi ed i vantaggi di un ventaglio di soluzioni astratto. E questo perché non sempre il committente ha la formazione culturale sufficiente per operare una scelta autonoma, che non sia quella di JP Morgan.

Per quanto errato sia, è prassi comune che di un parere complesso e articolato il committente legga le conclusioni e da queste ne tragga “i suggerimenti opportuni onde poter adottare consapevoli decisioni” 13.

Infatti la redazione di un parere legale in tanto è utile, in quanto suggerisca soluzioni e per questo – come vedremo – costituisce un’obbligazione di risultato. Altrimenti il mandato ricevuto sarebbe stato quello di scrivere un articolo, un saggio, una monografia su quella problematica specifica.

Ed un mandato di questo tipo avrebbe un’utilità solo per l’autore del parere legale, che così irrobustirebbe la sua bibliografia.

 4) La responsabilità dell’autore del parere

L’attività del giurista, categoria speciale del più complesso genere di professionista intellettuale, trova la sua disciplina nel contratto d’opera intellettuale, regolamentato negli articoli 2229 e segg. del codice civile.

Nello svolgimento dell’attività processuale, riservata ai soli esercenti la professione legale, consiste in una prestazione contrattuale, integrata da una serie di attività dirette ad ottenere, con l’ausilio della tecnica necessariamente connessa alla difesa, il risultato che il cliente si attende, nei limiti in cui tale aspettativa sia compatibile con l’ordinamento giuridico.

L’avvocato però non può obbligarsi a realizzare tale risultato “poiché l’avvocato assume l’obbligo di prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato ma non già di conseguirlo” 14. E pertanto l’adempimento del professionista avvocato si concreta nell’applicazione di un grado di diligenza tecnica, ai sensi dell’art. 1176, 2° co., strettamente connesso all’attività professionale.

Se il grado di diligenza è stato applicato come l’arte della professione prescrive, l’avvocato non avrà responsabilità, anche se il risultato atteso dal proprio cliente non viene raggiunto.

In questo caso il rischio grava sul cliente, mentre al buon professionista si richiede l’applicazione delle regole tecniche per un corretto esercizio richiesto dalla disciplina specifica.

Per questo motivo si parla di perizia, definita in giurisprudenza come “Conoscenza e attuazione delle regole tecniche e proprie di una determinata arte e professione”15.

Nel caso in cui al professionista venga richiesto un parere, si configura in molti casi un’obbligazione di risultato e “I doveri  di informazione, sollecitazione e di dissuasione ai quali il professionista deve adempiere, così all’atto dell’assunzione dell’incarico, come nel corso del suo svolgimento, prospettando anzitutto al cliente le questioni di fatto e/o di diritto rilevabili ab origine od insorte successivamente, riscontrate ostative al raggiungimento del risultato, e/o comunque produttive di un rischio di conseguenze negative dannose, invitandolo, quindi a comunicare o a fornire gli elementi utili alla soluzione positiva delle questioni stesse, sconsigliandolo, infine dall’intraprendere o proseguire la lite ove appaia improbabile tale positiva soluzione e, di conseguenza, il probabile esito sfavorevole dannoso”16.

In tal caso il danno subito dal cliente può essere considerato risarcibile se l’esatto adempimento dell’obbligazione consentirà in concreto il raggiungimento del risultato voluto17.

 5) Come ottenere un parere utile

Se quanto abbiamo sin qui sostenuto è vero e si riscontra agevolmente nella pratica, si dovrebbe concludere con un pessimistico rifiuto di dare credito ai pareri legali e, per i possibili autori, con un rifiuto di mettere in pericolo la propria credibilità ed autonomia a favore degli interessi del committente.

Anche se si tratta di interessi legittimi.

In realtà non è poi così difficile preservare la propria integrità professionale e le propria coscienza personale, offrendo pareri realmente utili. Basterà fare come ha fatto un caro amico milanese, considerato uno dei primi giuristi nella sua specializzazione, il quale, una volta ottenuto il quesito, si è riservato di accettare approfondendo la materia.

Nel momento in cui ha sciolto la riserva, ha comunicato che il suo parere giungeva ad una determinata conclusione. Ove questa conclusione fosse stata gradita, si sarebbe adoperato per motivarla approfonditamente. Ove non lo fosse, si sarebbe limitato ad esporre un onorario molto contenuto, avente ad oggetto l’esame della posizione.

E questo è un metodo sicuramente apprezzabile.

Un amico veronese, noto per la sua integrità, una volta ricevuto il quesito non vuole sapere altro e redige il proprio parere, prima ancora di ricevere il mandato, inviandolo al committente. Se le conclusioni saranno gradite tanto meglio, altrimenti il committente potrà comunque utilizzare quell’orientamento per prendere le sue decisioni.

Questi sono soltanto due dei metodi possibili per ridare dignità ad un’attività che dovrebbe rappresentare la parte più pregiata dell’attività di un giurista.

Altri metodi sicuramente il lettore li saprà escogitare e praticare.

 

Lamberto Lambertini

 

 

 

 

[1] S. Sanzo, Duttilità mentale e libertà di pensiero, in AA.VV., Professione avvocato, le qualità distintive della professione raccontate dagli avvocati, Giuffrè, 2017, pag. 123. L’autore ricorda una discussione in Cassazione avvenuta nel 1980, nella quale un importante professore romano, civilista di alta qualità, ebbe un malore allorchè l’avvocato avversario, per difendere la sentenza della Corte di Appello a lui favorevole, desse un parere che sosteneva la tesi della sentenza appellata e contrastava la tesi del professore romano ricorrente in Cassazione. Il fatto è che quel parere era stato scritto un decennio prima proprio dall’importante giurista romano.

2 I lavori su questo tema risalgono al decennio scorso (E. Cappa, Parere legale, Giuffrè, 2004; A. Mariani Marini, La lingua, la legge, la professione forense, Giuffrè, 2003; D. Poto, Note sparse sul parere legale, in Diritto e formazione, 2008, 8, p. 899 e segg. (PDF Online). Solo di recente si segnala U. Vincenti, Diritto e menzogna. La questione della giustizia in Italia, Donzelli Ed., 2013

3 G. Alpa, “Forensic Linguistics”: il linguaggio dell’avvocato nell’evoluzione dell’ordinamento dei metodi interpretativi, delle prassi e della tecnologia, in AA.VV. La lingua, la legge, la professione forense, a cura di A. Mariani Marini, Giuffre, 2003. Si dovrebbe trattare di un “contributo scientifico in cui la questione esaminata viene qualificata giuridicamente, si espongono gli orientamenti di dottrina e giurisprudenza, si esprime il proprio avviso, il tutto sotto l’apparenza della obiettività”, Alpa, 2003, 31

4 Cass. Civ., sez. II, 14.11.2002, n. 16023

5 Gorresio, La stampa, 21 maggio 1982, “Scelba… era stato un pacifico avvocato stimatissimo come “parerista”. Come si ricorderà, Scelba fu un primo ministro contestato nelle piazze italiane e per questo dimissionario

6 Zagrebelsky, Diritto allo specchio, Einaudi, 2018, 394

7 Bargh, A tua insaputa. La mente inconscia che guida le nostre azioni, Bollati Boringhieri, 2018, 308

8 Kanemann, Pensieri lenti e veloci, Mondadori, 2012

9 Bargh, cit. 309

10 Bargh, cit., 278, “Siamo consapevoli delle nostre azioni e dei nostri appetiti, ma ignari della cause da cui questi desideri sono determinati”

11 Adottiamo qui il concetto di “campo” elaborato dal sociologo francese Bourdieu che, pur non avendo mai analizzato il campo del diritto, lo ha applicato in quello del gusto personale (P. Bourdieu, Distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, 1979) dell’arte (Le regole dell’arte, Il Saggiatore, 1998), della scienza (Il Mestiere di scienziato, Feltrinelli, 2001)

12 J. De La Fontaine,La Gallina e la Perla, Favole, Einaudi, 1958, 41). (12

13 Cass. 16023/2002

14 Cass. 26.2.2002 n. 2836

15 Cass. 19.5.1999, n. 4852

16  Cass. 1.12.2002, n. 16023, Danno e resp. 2003, 3, 256, con nota di Fabrizio-Salvatore

17 Lambertini, L’avvocato, in AA.VV., Danni da inadempimento, responsabilità del professionista, lavoro subordinato, Cedam, 2011, 431).